Douglas Coupland, Hey Nostradamus!

Pubblicato su Il Paese Nuovo, 2011-09-07. “Nel recinto delle parole – Douglas Coupland, Hey Nostradamus!”
«In sostanza credo che le relazioni che sopravvivono a questo mondo siano quelle in cui due persone riescono a finire la frase l’una dell’altra. Il dramma, il sesso torrido e il conflitto tra gli opposti non c’entrano niente». Sono le parole che Douglas Coupland mette in bocca al terzo dei personaggi del suo libro, Hey Nostradamus!, edito in Italia nel 2007 da Frassinelli. Quattro storie legate alla stessa storia. L’inizio comune è quello della fine che genera. Sconforto. Ansia. Disperazione. E un nuovo percorso. Quattro personaggi persi nel recinto delle parole, delle pagine da sfogliare. Ognuno in cerca di qualcosa, di un modo comune, a tutti e quattro, per alleviare tensioni e sofferenze, disperazioni mai lasciate alle spalle. È nella citazione precedente che si cela una chiave di lettura che pone l’attenzione sulla necessità di comunicazione che l’epopea narrata da Coupland sente come un leggero vento che scivola via. È la realtà del margine, quella del quotidiano – tranquillo – che si capovolge nel fallimento di una dimensione domestica irreale, lontana, affranta, distrutta incantata. Sono le parole che puzzano di sudore, quello libero che è nella sofferenza e di questa si nutre e in questa si divincola. È un’apologia del fallimento, un capovolgimento che strazia e dona luce a quattro aspetti diversi dello smarrimento. Perché è nel capovolgimento degli spettri narrativi di Coupland che il fallimento nobilita la condizione umana, legandola a doppio filo ad una tradizione che fa della sofferenza il riscatto e la rivalsa contro il destino e delinea una superiorità umana sugli dei, su quel dio che in Coupland è assente e fulcro dello smarrimento, è simulacro, ipocrisia e falsità. È feticcio che in ansia claustrofobica conduce le quattro storie con le madide redini del fanatismo, inglobandole in una spirale di dolore, di quel dolore che trasuda l’energia stessa di una generazione intera massacrata dall’incomunicabilità mediatica che Coupland racconta nei pregiudizi ferrei del fanatismo religioso, che Coupland racconta nella condizione piatta di un televisore acceso all’ora di pranzo, che riempie stanze e orecchie tacendo relazioni e connessioni umane più profonde, legate ai peccati da confessione domenicale per un’astrazione delle modalità comunicative di vicinanza umana. È nelle riflessioni, che dal dolore si aprono, che si cela la forza d’urto della narrazione di Coupland, che dall’inquietudine trae la necessaria condizione dell’andare avanti e dello scontrarsi non con le sofferenze, ma con gli attimi di gioia che negano gli occhi alla realtà attorno e sono periferici all’esistenza stessa. Hey Nostradamus! è un continuo sporgersi dalla finestra di una realtà che odora di finzione, che galleggia a metà fra il mondo incantato di dio e la vita da sogno televisiva, che nega, tutto questo, il contatto e l’ancorarsi ad uno specchio reale manifestando il disagio in quella via salvifica che sa di perdizione. «Ho anche sette anni più di Jason, ma dopo i trentatré, all’incirca, nella testa abbiamo tutti la stessa età, quindi non è poi così grave come sembra. Almeno non a guardarla da dentro. E dal momento che Jason aveva quasi trentatré anni, avevamo quasi la stessa età. Comunque sia, qualche decennio dopo il primo bacio e la prima sigaretta, non mi importa più se un uomo è ricco o povero, tanto la vita ci lascia addosso sempre lo stesso numero di ammaccature. La maggior parte di persone potrebbe vedere Jason come un fallito, e non avrebbe tutti i torti. Il fallimento è autentico, in quanto tale, è reale e genuino, quindi è uno stato puro dell’essere.» (Douglas Coupland, Hey Nostradamus!, Frassinelli, 2007).

Francesco Aprile
2011-09-02